Siamo alla fine degli anni '90 a Karachi, Pakistan, dove più di 4 milioni di persone vivono in condizioni precarie e di sovraffollamento all’interno di baraccopoli. I problemi igienici sono molteplici, le acque reflue scorrono all’aria aperta, povertà e malnutrizione sono all’ordine del giorno, le fonti d’acqua inquinate. La mortalità infantile sotto i cinque anni è altissima: muore un bambino su 10.
Non è una questione solo di infrastrutture fatiscenti o inesistenti, ma un profondo problema sociale, come è spesso il caso quando si parla di sanità pubblica: l’analfabetismo degli abitanti di quell’area non permetteva la diffusione di una corretta educazione sanitaria di base, non esistevano investimenti solidi per via di instabilità politica e corruzione. Oltre al fatto che la crisi dell’industria agricola mondiale portava sempre più persone a riversarsi nelle città, con un conseguente aumento dell’affollamento. Come porre rimedio alla mortalità infantile in un contesto così complesso? Regalando sapone.
L'episodio (di successo, come vedremo più avanti) di Karachi, quale esempio virtuoso di intervento sanitario, viene ben descritto nel bestseller The Checklist Manifesto, di Atul Gawande. Come racconta l’autore, il protagonista della nostra storia è il medico Stephen Luby, cresciuto in Nebraska, e assunto dal Center for Disease Control and Prevention (l’agenzia federale degli USA facente parte del Dipartimento della salute) per risolvere l’annoso problema pakistano, assieme alla locale organizzazione benefica HOPE.
La soluzione doveva prescindere da grandi cambiamenti sociali e strutturali, doveva essere economica e non doveva richiedere grandi conoscenze o tecnologie, visto il contesto specifico dove si doveva implementare. Luby era consapevole che la Procter & Gamble, multinazionale americana di beni di largo consumo (Dash, Mastro Lindo, Gillette, Braun, Pantene, la lista è lunghissima) desiderava dimostrare il valore del proprio nuovo sapone antibatterico Safeguard.
Così, nonostante lo scetticismo dei suoi colleghi, Luby convince l'azienda a sovvenzionare uno studio atto ad analizzare gli effetti di una campagna di promozione verso un corretto lavaggio delle mani, grazie a due saponi, con e senza l’agente antibatterico Triclocarban. A riprova del fatto che il finanziamento di un’azienda non è di per sé motivo di scetticismo nei confronti della scientificità delle ricerche, fu uno studio epidemiologico con tutti i crismi: a 25 quartieri vennero assegnati casualmente, in parti uguali, una delle due varianti di sapone, con l'agente antibatterico e senza. Venne indicato, a queste persone, che il sapone doveva essere usato in sei situazioni in particolare: per lavarsi il corpo, almeno una volta al giorno, per lavarsi le mani ogni volta dopo aver defecato, prima di asciugare un bambino, prima di mangiare, prima di preparare cibo per altri o servirlo. Vennero quindi raccolte informazioni sui tassi di malattia, e confrontati con altri 11 quartieri delle baraccopoli che fungevano da controllo.
I risultati, pubblicati su The Lancet nel 2005, furono straordinari: le famiglie dei quartieri dove venne condotto l’esperimento ricevettero in media poco più che 3 saponette a settimana per 1 anno, e durante tale periodo l'incidenza di diarrea tra i bambini diminuì del 52% rispetto a quella del gruppo di controllo, indipendentemente dal sapone utilizzato. L'incidenza della polmonite diminuì del 48%, e l'incidenza dell'impetigine, un'infezione batterica della pelle, del 35%. Tutto ciò avvenne nonostante l'analfabetismo, la povertà, l'affollamento e il fatto che, per quanto sapone usassero, le persone comunque continuavano a bere e a lavarsi con acqua contaminata.
Ironia della sorte, racconta Gawande, Procter & Gamble fu abbastanza delusa dai risultati; non per altro, ma perché Luby indirettamente dimostrò che l’aggiunta dell’agente antibatterico non faceva poi granché differenza, e che il semplice sapone era più che sufficiente. Che poi, come per altri esempi di grandi successi di sanità pubblica, non fu veramente il sapone in quanto sapone ad aver cambiato le cose; quanto più il fatto che rappresentava il veicolo attraverso il quale operare un cambiamento di comportamento. I ricercatori, infatti, non si limitarono a consegnare il sapone, ma assieme ad esso vennero date precise istruzioni su come usarlo. D’altronde il sapone nelle case di Karachi esisteva ben prima dell’arrivo di Luby, che però consegnandolo in forma gratuita, permise di rimuovere la barriera economica che limitava un consumo considerato smodato, come poteva essere quello di utilizzarlo così tanto spesso come raccomandato. Oltre al fatto, non scontato, che veniva donato un buon prodotto; arrivò un regalo, quindi, più che un’imposizione, regalo che arrivava con alcune semplici idee di base che avrebbero migliorato la vita degli abitanti di Karachi, e quella dei loro bambini.
Questa storia offre vari spunti di riflessione importanti; oltre a farci ragionare sul possibile ruolo, in questo caso determinante, delle imprese private in opere sanitarie, l’esempio di Karachi secondo Gawande può essere assunto a standard di quali devono essere le caratteristiche di un intervento sanitario perché sia di successo. Innanzitutto, la semplicità. Come già spiegato, era pressoché impossibile, almeno non in poco tempo, risolvere il problema della mortalità infantile attraverso un cambiamento radicale a livello sociale, culturale, di impianto di approvvigionamento idrico eccetera. Serviva qualcosa di semplice, i cui effetti (seconda caratteristica imprescindibile) potessero essere facilmente misurabili; attraverso un disegno sperimentale semplice e molto diffuso in ricerca clinica (trial controllato randomizzato), fu possibile analizzare gli effetti dell’uso del sapone sulla popolazione di interesse, e attribuire i miglioramenti circa l'incidenza di malattia all’intervento in esame. Infine, terza e ultima caratteristica, l’esperimento di Luby era trasmissibile, ovvero facilmente comunicabile tra persone.
Siamo portati a pensare che i problemi in medicina e sanità in genere siano estremamente complessi, così tanto da non poter essere risolti attraverso semplici interventi come il sapone di Karachi. Quello che però spesso dimentichiamo è che, così come in molte altre discipline, non tutto è davvero complesso. Solo complicato. La differenza? Secondo un famosissimo Discussion Paper del 2002 a firma Glouberman e Zimmerman un qualcosa di complicato è divisibile in tante operazioni più semplici, mentre la complessità ha insita in sé talmente tanta variabilità da non poter essere schematizzata. Un esempio per meglio capire di cosa parliamo: spedire un razzo nello spazio è un’attività complicata, che può però essere più facilmente gestita suddividendo il tutto in tanti piccoli interventi, ognuno gestito dal proprio pool di esperti. Il caso può comunque entrare in gioco, ma esistono varie tecniche per ridurre il suo impatto al minimo, e controllarlo; così, sarà possibile costruire il nostro razzo e garantire, in futuro, ad altri, seguendo i nostri stessi procedimenti, di costruire a loro volta il loro. Cos’è invece un esempio di problema complesso? Crescere un figlio, dicono Glouberman e Zimmerman. Per quanta esperienza si possa fare come genitori, nessun figlio è uguale al precedente: non è possibile scrivere un libretto di istruzioni da seguire pedissequamente per ottenere sempre gli stessi risultati.
La scienza è complicata ma non sempre complessa. Riconoscere dove e come dividere i nostri problemi in piccoli e semplici step da risolvere è il primo passo per riuscire a trovare le risposte ai nostri interrogativi.
Carlotta Jarach