Tutto il giorno veniamo sommersi di notifiche e avvisi dai nostri dispositivi. Gli smartphone vibrano per svegliarci, e-mail piovono sulle nostre caselle di posta, notifiche di colleghi e amici lontani affiorano sui nostri schermi. Tali interruzioni sembrano logiche alla nostra mente: vogliamo che la tecnologia ci aiuti con le nostre vite frenetiche, assicurandoci di non perdere appuntamenti e comunicazioni importanti. Ma la maggior parte di noi è diventata così intimamente intrecciata con la nostra vita digitale che a volte sentiamo i telefoni vibrare nelle nostre tasche quando in realtà non sono nemmeno lì. In effetti, è facile sentirsi smarriti quando non riusciamo a trovare il nostro telefono. Circa il 73% delle persone afferma di provare una particolare miscela di ansia e frustrazione fino a quando non riesce a ritrovarlo. Molti di noi vorrebbero passare meno tempo sui nostri telefoni, ma trovano incredibilmente difficile disconnettersi. Quindi, come facciamo a sapere se il nostro attaccamento allo smartphone è solo un fenomeno culturale del 21° secolo o una vera dipendenza? Oppure, perché i nostri smartphone sono così difficili da ignorare?
Sebbene non vi sia nulla di intrinsecamente avvincente negli smartphone stessi, i veri motori dei nostri attaccamenti a questi dispositivi sono le app che forniscono. Piattaforme come Facebook, Snapchat, Instagram e altri, sono progettate precisamente per creare dipendenza, di modo da farci consumare il nostro tempo il più possibile. Il motivo di questa scelta di design è qualcosa che la maggior parte di noi conosce ma che pochi apprezzano davvero: poiché la maggior parte di queste piattaforme sono gratuite, fanno affidamento sulle entrate degli inserzionisti per generare un profitto. A prima vista, questo sistema dovrebbe beneficiare tutte le persone coinvolte, ma in realtà ha finito per creare una corsa agli armamenti per la tua attenzione e il tuo tempo. Perché la pubblicità funzioni, infatti, deve attirare l’attenzione prima di fare qualsiasi altra cosa, e più tempo ha per farlo, meglio è. Ma il problema è che l’attenzione è uno stato mentale, e le nostre riserve di attenzione e di tempo sono limitate. Al traguardo, quindi, i vincitori di questa corsa all’oro saranno le app progettate al meglio per fare leva su una delle sostanze prodotte dal nostro cervello: la dopamina.
Nella cultura popolare, la dopamina è solitamente vista come la sostanza chimica del piacere, ma l'opinione corrente in farmacologia è che la dopamina invece conferisca valenza e salienza motivazionale; in altre parole, la dopamina segnala il valore e la rilevanza motivazionale percepita (cioè, la desiderabilità) di un risultato, che a loro volta generano un incentivo in grado di influenzare pensieri e comportamenti che facilitino il raggiungimento di quel risultato. La dopamina ci spinge quindi ad agire. All’atto pratico, viene rilasciata quando mangiamo, dopo l'attività fisica, il sesso e, soprattutto, quando abbiamo interazioni sociali di successo. In un contesto evolutivo, ci premia per comportamenti benefici e ci motiva a ripeterli. Il nostro cervello contiene tre “circuiti”, ovvero connessioni tra diverse regioni cerebrali che agiscono come autostrade di messaggistica chimica, associati alla dopamina e che costituiscono il nostro sistema di ricompensa, un meccanismo che sta alla base della possibilità di apprendere dall’esperienza, e che ci permette di associare un determinato stimolo o comportamento alla gratificazione, o ricompensa, che ne segue.
I neuroni dopaminergici si attivano non solo quando sperimentiamo un evento gratificante, ma anche quando ci aspettiamo di ricevere una gratificazione. In effetti, non è la ricompensa in sé, ma l'aspettativa di una ricompensa che influenza in modo più potente le nostre reazioni, emozioni, e i nostri ricordi. L'apprendimento di una ricompensa, infatti, avviene quando si verifica un errore di previsione, ovvero quando la ricompensa effettiva è diversa da ciò che i nostri neuroni dopaminergici avevano altrimenti previsto. Se si verifica una ricompensa maggiore di quanto anticipato, la risposta della dopamina aumenta. Al contrario, la sua attività diminuisce se non si verifica alcuna ricompensa, o se questa è inferiore alle previsioni. Prevedere correttamente una ricompensa, invece, non altera l’attività di base della dopamina perché non stiamo imparando nulla di nuovo.
Apparentemente, questo è un meccanismo costruito dall'evoluzione per spingerci a volere sempre di più e mai di meno. Persino un buddista, che odia desiderare beni materiali e obiettivi irraggiungibili, vuole essere più contento piuttosto che meno. Questa caratteristica neurologica è qualcosa che i proprietari di casinò usano a proprio vantaggio da anni. Se hai mai giocato alle slot, avrai sperimentato l'intensa attesa mentre girano le ruote: i momenti tra la pressione della leva e il risultato forniscono tempo ai nostri neuroni dopaminergici per anticipare una ricompensa (la vincita, in questo caso) e aumentare la loro attività, creando una sensazione gratificante semplicemente giocando. Ma man mano che i risultati negativi si accumulano, la perdita di attività della dopamina ci incoraggia a smettere di giocare. Pertanto, è necessario mantenere un equilibrio tra risultati positivi e negativi per mantenere il nostro cervello sufficientemente coinvolto. Ma in che modo le app nei nostri smartphone traggono vantaggio da questa strategia di apprendimento basata sulla dopamina?
Un esempio: gli indicatori di digitazione sono quei 3 puntini che compaiono quando qualcuno sta digitando in chat. Questi indicatori generano anticipazione, suspense su ciò che l’altra persona potrebbe dire, tenendoci in attesa di vedere il risultato. Inoltre, simile alle slot machine, molte app implementano uno schema di ricompensa ottimizzato per tenercicoinvolti ancora di più: lo schema a rapporto variabile. Si chiama "a rapporto" perché la risposta viene rinforzata in base ad un certo numero di volte in cui una persona ha eseguito un comportamento. E si chiama “variabile” perché il comportamento target non viene ricompensato ogni volta, ma a intervalli irregolari. In questo modo, la capacità del nostro cervello di fare previsioni esatte diminuisce, e gli errori di previsione – e quindi i nostri livelli di dopamina – aumentano. Basandosi su questo stratagemma, alcune app implementano algoritmi di notifica che trattengono e rilasciano rinforzi sociali, come i "mi piace" su Instagram o i “commenti” di Facebook, per fornirli in raffiche più grandi in modo imprevedibile. Quindi, ogni volta che si pubblica, si commenta, si condivide o si invia un invito online, si sta creando un’aspettativa. Grazie a questi algoritmi, potresti essere inizialmente deluso di trovare meno risposte di quelle che ti aspettavi, solo per riceverne molte di più poco dopo. I nostri centri dopaminergici sono stati deliberatamente depressi da quegli esiti negativi iniziali perché potessero rispondere in modo più incisivo ad un improvviso afflusso di convalida sociale.
Persino il meccanismo pull-to-refresh dei feed di testo e di immagini è strutturato secondo questa logica: il leggero ritardo nella risposta prima che il tuo feed venga aggiornato con nuovi contenuti è tutto volto a costruire l’anticipazione di rilasciare una scarica di dopamina appena ricevi i tuoi ultimi post. A lungo andare, sarai in grado di aprire un’app in qualsiasi momento della giornata e aspettarti ragionevolmente di essere ricompensato. Se abbinato al basso costo richiesto dal controllare il telefono, hai un forte incentivo a fare un controllo veloce ogni volta che puoi, fino a quando non diventa un’abitudine.
Un altro fattore che perpetua la dipendenza dalle piattaforme digitali è quello della reciprocità sociale; se qualcuno ti dà una pacca sulla spalla, sentirai il bisogno di ricambiare. Quasi tutte le app di messagistica sfruttano questo sentimento, avvisandoti quando qualcuno ha letto il tuo messaggio, il che incoraggia il destinatario a rispondere, perché sanno che tu sai di averlo letto. E allo stesso tempo, ti incoraggia a ricontrollare per leggere l'inevitabile risposta.
Inoltre, molte app sfruttano il concetto di “gamification” (cioè, l'utilizzo di elementi di gioco come punteggi, livelli, badges, ecc.) per coinvolgere l’interesse degli utenti e farli tornare. Ad esempio, gli “streaks” di Snapchat sono delle linee rosse allungate che tengono traccia del numero di giorni consecutivi trascorsi dall'interazione di due utenti. Se gli utenti non interagiscono tra loro entro 24 ore, lo streak muore. La ricompensa per il mantenimento di uno snapstreak è il numero stesso: per molti, è semplicemente un diritto a vantarsi per averne mantenuto uno il più a lungo possibile. Questo è un chiaro esempio di come i meccanismi di coinvolgimento delle app stanno guidando l'utilizzo più che il divertimento.
Infine, la tattica più subdola. Le notifiche push sono apparse insieme ai Blackberry, e il loro obiettivo originale era ridurre il tempo che le persone trascorrevano sui loro smartphone. L’idea era semplice: dando un riepilogo veloce sullo schermo, l’utente non avrebbe avuto bisogno di aprire tutte le sue caselle e-mail tutto il tempo. Ma in questo mondo in cui l’unica cosa che conta è promuovere un maggiore tempo di utilizzo, quasi ogni app ha progettato le proprie notifiche pushper distrarre e interrompere costantemente le nostre giornate, cercando di reindirizzare l’attenzione sui nostri schermi. La “FOMO” (fear of missing out, cioè la paura di perdersi qualcosa) è una parte importante dei snapstreaks quanto delle notifiche push. Ci dicono che abbiamo 3 messaggi non letti, ma senza dire chi li ha inviati o cosa dicono: l’unico modo di togliersi il dubbio è aprendo l’app.
Gli smartphone e le app che forniscono non faranno che integrarsi sempre di più nella nostra quotidianità, quindi spetta a noi utenti decidere quanto del nostro tempo vogliamo dedicare loro. A meno che il modello di profitto basato sulla pubblicità non cambi, gli sviluppatori continueranno a fare tutto il possibile per farci tenere gli occhi incollati allo schermo. Fino ad allora, un uso consapevole della tecnologia è lo strumento migliore che abbiamo per combattere questa tendenza.
Hernan Ileyassoff
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