A causa della COVID-19 tutti abbiamo ormai ben chiaro il significato del termine pandemia e abbiamo ben compreso quanto disastrose possano esserne le conseguenze. Purtroppo, questa non è l’unica pandemia che stiamo combattendo, ma ce n’è un’altra, silente, che da un po’ di anni a questa parte comincia a destare sempre più preoccupazione nella comunità scientifica. Si tratta della pandemia causata dai batteri antibiotico-resistenti, ovvero da batteri che hanno acquisito la capacità di resistere agli antibiotici, le cui infezioni non possono essere più trattate con classiche terapie antibiotiche, divenendo potenzialmente fatali.
C'è un'altra pandemia silente che stiamo combattendo: l'antibiotico resistenza
Purtroppo i batteri antibiotico-resistenti sono in aumento e secondo un report del 2016 sono arrivati a uccidere circa 700,000 persone l’anno, resistendo a tipi di antibiotici sempre maggiori. Lo stesso report, inoltre, indica che nel 2050 l’antibiotico-resistenza sarà la prima causa al mondo di morte, con circa 10 milioni di vittime l’anno, superando di gran lunga il numero di morti per cancro, e ad un costo di 100 trilioni di dollari l’anno. Questo rappresenta pertanto un problema dal punto di vista non solo di qualità della vita, ma anche di sostenibilità dei sistemi sanitari.
La comunità scientifica si sta da tempo impegnando nella ricerca di antibiotici di nuova generazione, ma il percorso sarà lungo e tortuoso. La problematica principale, infatti, è che gran parte degli antibiotici disponibili in natura è già stata scoperta e utilizzata e, seppure gli sforzi sono indirizzati alla sintesi di nuove molecole, prima o poi i batteri riescono a trovare il modo di resistervi.
Quale potrebbe essere un espediente per ovviare al problema?
Un gruppo del Wistar Institute di Philadelphia potrebbe aver trovato la soluzione. In un recente articolo pubblicato su Nature, Singh e colleghi dimostrano di aver trovato una nuova classe di antibiotici, chiamati immuno-antibiotici: si tratta di molecole che hanno la doppia funzione di uccidere i batteri e di stimolare l’attività antibatterica di un particolare tipo di cellule immunitarie, le cellule γδ T. I ricercatori del Wistar Institute si sono particolarmente concentrati su una categoria specifica di immuno-antibiotici che ha come target principale la produzione degli isoprenoidi.
Gli isoprenoidi sono delle molecole prodotte dai batteri necessarie per diversi processi cellulari, tra cui la sintesi della parete batterica e diverse reazioni metaboliche. Bloccando la produzione degli isoprenoidi, il batterio non è più in grado, quindi, di svolgere funzioni cellulari essenziali, quali per esempio costruire la parete batterica o produrre energia, e di conseguenza muore.
Da Philadelphia arrivano gli immuno-antibiotici che inibiscono la produzione di isoprenoidi
Ma la vera innovazione di questo farmaco risiede nella capacità di attivare il nostro sistema immunitario. Infatti, il blocco della sintesi di isoprenoidi causa all’interno della cellula batterica un eccesso di HMBPP, ovvero il composto precursore degli isoprenoidi. Questa molecola viene recepita dal nostro corpo e porta all’attivazione delle cellule γδ T, le quali a loro volta attivano una potente risposta di difesa antibatterica, uccidendo i batteri e tutte quelle cellule umane esposte all’HMBPP. Ciò quindi che risulta rivoluzionario di questo tipo di antibiotici è la capacità non solo di colpire direttamente i batteri ma anche di “svegliare” il nostro sistema immunitario, rafforzando le nostre difese naturali contro questi.
Modificata da Mehellou & Willcox, Nature 589, 517-518 (2021) - Graphic design: Miriam Sonnino
Per individuare potenziali immuno-antibiotici, i ricercatori hanno eseguito uno screening in silico, ovvero effettuando simulazioni al computer, di 10 milioni di molecole successivamente testate in provetta; di queste ne hanno selezionate due con forti attività inibitorie per la produzione di isoprenoidi. Tuttavia, a causa delle loro caratteristiche fisiche, i due inibitori candidati non erano in grado di attraversare le membrane esterne del batterio e, quindi, di essere assorbiti dalla cellula batterica, limitando così il loro potenziale utilizzo. I ricercatori non si sono persi d’animo e hanno deciso di usare un ’espediente già ampiamente utilizzato per permettere il passaggio di farmaci attraverso membrane cellulari.
La strategia consiste nell’utilizzare un pro-inibitore, una versione inattiva dell’inibitore che può più facilmente essere assorbito dalla cellula batterica, e, una volta entrato, viene convertito dalla cellula stessa nella sua versione attiva. I ricercatori sono così riusciti a testare con successo i due inibitori con diverse specie batteriche, inclusi anche ceppi clinici resistenti a diversi antibiotici, dimostrando applicazioni promettenti. Inoltre, gli scienziati hanno osservato che quando i due inibitori venivano testati sui batteri in presenza di cellule γδ T, non c’era alcuna traccia di resistenza sviluppata dai batteri contro gli inibitori, suggerendo che, rispetto agli antibiotici convenzionali, l’uso degli immuno-antibiotici potrebbe limitare la comparsa di nuovi ceppi antibiotico-resistenti.
Senza dubbio parlare degli immuno-antibiotici come gli antibiotici del nuovo secolo sarebbe troppo precoce, considerando quanto tempo e quanti studi sono ancora richiesti. Tuttavia, le potenziali applicazioni cliniche di questa nuova classe di farmaci sono decisamente promettenti e continueranno a riscontrare interesse. Dopo tutto, la ricerca non deve fermarsi e solo grazie al continuo impegno della comunità scientifica nonché al sostegno delle istituzioni attraverso solidi investimenti riusciremo a vincere una volta per tutte la battaglia contro i nostri nemici batteri.
Giulia Pilla
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